Liane Collot d’Herbois

Liane Collot d’Herbois

20 Aprile 2022 Off Di Amelie

“La conoscenza dei propri motivi e il tentativo di rendere cosciente la propria vita di sentimento, conducono verso la libertà”

Liane Collot d’Herbois fu artista dallo sguardo acuto, penetrante, dai sentimenti limpidi, una risolutezza interiore ed una profonda spiritualità, che la resero un animo indipendente e cosmopolita, in continua evoluzione; grazie al suo intelligente senso dell’umorismo riuscì a superare la gravità terrestre delle tragedie vissute e le preoccupazioni della vita quotidiana, e ad allontanare forme di adulazione e adorazione che giudicava abili ‘seduttori’ per gli artisti: spesso nelle conversazioni ripeteva quanto fosse grata di essere una donna comune e largamente sconosciuta, vissuta nel XX secolo.

Si presentava spesso con queste parole, “Io sono uguale ad ogni altro essere umano. Percepisco il mondo con i medesimi sensi di qualsiasi altra persona… Cerco di esercitare la mia percezione perché sia chiara e pura, con questi occhi umani”, e poi ancora, “aspiro consapevolmente a che il mio lavoro non sia mai espressione della mia anima, piuttosto dovrà sempre essere obiettivo” e questo per lei significava estrema precisione nel trattare i colori e le forme: fu sempre fedele e rigorosa a questo modo di procedere, senza compromessi di metodo; non si legò mai al motto del XX secolo del fare arte per amore dell’arte: si vedeva prima di tutto come una lavoratrice, piuttosto che un artista.

Liane Collot d’Herbois nacque prematuramente in Cornovaglia il 17 dicembre del 1907 da madre scozzese e padre francese, pittore di origini aristocratiche descritto come un uomo di poche parole, stravagante, con una disposizione alla spontaneità e soprattutto a scatti esplosivi e collerici.

Crebbe nella casa della nonna materna, curata da lei: i genitori vivevano in un’altra cittadina e Liane Collot d’Herbois li vedeva raramente e con poco desiderio.

La sua vita sociale durante l’infanzia fu molto ristretta: racconta di aver vissuto molto tra le strade, non cercava la vicinanza delle persone. Trovava un rifugio sicuro tra gli animali, la natura e le mura della casa della nonna.

A cinque anni i suoi genitori decisero di andare a vivere in Australia e la portarono con loro: fu un anno drammatico per la bimba, strappata al suo mondo familiare e catapultata in mezzo ai genitori che conosceva ben poco e al loro già teso matrimonio. Dopo queste esperienze difficili, a cui seguì la separazione decisiva dei genitori, una volta tornata in Inghilterra, ci fu un momento critico per la sua crescita: scoppi d’ira, bizze, capricci, un chiaro disorientamento e dalle sue parole, “… adoravo quando le persone erano arrabbiate con me”.

A otto anni si ammalò gravemente e visse per tre giorni in uno stato di morte apparente. Fu questo un momento cruciale della sua vita: “Fu molto difficile rientrare nel mio corpo. Fu molto doloroso”. Al risveglio era mutata: i capelli da rossi e ricci, erano diventati neri e lisci e il temperamento da agitato e scontroso, divenne più quieto, “…non solo divenni più tranquilla, ma anche più seria e tollerante”. Si avvicinò alle persone, le interessava ora scoprire perché si comportavano in un certo modo, sviluppò pietà ed empatia per chi veniva punito.

Poco dopo questo episodio, d’estate in vacanza al mare con la madre, scoprì la pittura: rimase senza fiato alle spalle di un pittore che dipingeva sulla spiaggia, e da lì iniziò da sola a provare con fiammiferi usati come pennelli, sinché vendette nel 1918 il suo primo quadro e poté comperare attrezzi e materiale migliori.

Negli anni successivi continuò ad immergersi nel mondo dei colori e delle forme, sentiva che la pittura le donava quell’equilibrio desiderato e necessario per potersi cogliere nel centro del suo essere, “la pittura mi tenne in vita” disse più avanti riguardo al periodo dell’adolescenza, dove visse con la madre e il secondo marito di lei, di cui non riusciva a comprendere lo stile di vita perso per le corse dei cavalli; cercò di controllare la sua avversione per lui, sviluppando un interesse per la formazione professionale terapeutica in ambito farmaceutico, ma il marito della madre le proibì di proseguire questi studi.

Quando a 17 entrò nella scuola di arti e musica di Birmingham, sentì di essere finalmente nel posto giusto, “per la prima volta nella mia vita mi trovavo con persone simili a me”: qui il suo lavoro e la sua persona ricevettero grandi apprezzamenti.

“Facevo in modo che la percezione lavorasse in me, la portavo nella notte e il giorno dopo la dipingevo a memoria, dalla memoria, da dentro”: si esercitava ad osservare quanto gli occhi potevano conoscere da soli e procedeva in modo metodico studiando il cambiamento della percezione sensoriale per mezzo della memoria, “si può penetrare la sostanza della percezione con la memoria”.

Continuò ad insegnare nella scuola dopo il diploma, perché la sua ricerca artistica si orientava per lo più alla vita sociale e amava stare con i bambini: diventò sempre più chiaro che aveva grande talento nel mostrare quanto della costituzione, del temperamento e della malattia erano rivelati nelle pitture delle persone.

Conobbe l’antroposofia a ventun anni e il grande entusiasmo per gli scritti di Rudolf Steiner le permisero di vedere il valore di questa nella pratica: la scienza della spirito conduce ad un’azione, ad un atto sociale, a percepire e comprendere meglio l’altro; intuì che il percorso scelto andava oltre il divenire artista: per prima cosa desiderava diventare interiormente altruista e la pedagogia curativa era la strada per realizzare questo compito.

A ventiquattro anni entrò a far parte di un istituto di pedagogia curativa ad indirizzo antroposofico fondato da poco in Inghilterra e conobbe Ita Wegman, ne nacque un rapporto di scambio fecondo: il medico antroposofo fu la prima persona a scorgere in lei la grandiosa dimensione terapeutica e curativa del suo lavoro e la supportò perché quella particolare energia spirituale che emanava dai suoi lavori potesse essere sviluppata e conosciuta dal mondo: “i tuoi dipinti, Liane, devono portare calore, devono riscaldare. Questo è il senso: che il dipinto abbia un significato per una singola persona o per un’istituzione, che questo dipinto ricordi alle persone il mondo spirituale”.

Nelle parole di Liane Collot d’Herbois “Ita Wegman osservava un dipinto per prima cosa per le sue qualità di riscaldare e a volte cercava in esso la luce di Michele. Raramente, se non mai, era soddisfatta dal solo contenuto di ciò che osservava”, e poi continua descrivendola nella qualità che riconobbe come la più peculiare, quella caratteristica che la nutrì ed esercitò nella sua arte, per renderla sempre più sua: “…Ita Wegman mi ha aiutata a vedere come la cosa più importante che un artista può fare, non è esprimere se stesso, ma lavorare per le altre persone.”

Ed è proprio questa altruistica propensione al sacrificio,che Liane trova in Ita Wegman, come attitudine fondamentale per il suo lavoro artistico: non ha mai considerato i suoi lavori come espressione della sua interiorità, questi nascevano piuttosto dalla ricerca di una relazione oggettiva con i colori, il paesaggio, la storia umana; ha sempre desiderato rivelare e rendere visivamente concreto qualcosa di spiritualmente reale. Benché la pittura la abbia molto aiutata come elemento terapeutico per le esperienze traumatiche dell’infanzia e dell’adolescenza, non ha mai dipinto per se’.

Questo con Ita Wegman fu un rapporto di grande amicizia che Liane sostenne da vicino negli ultimi anni di vita della dottoressa, che morì nel 1943: era il periodo delle grandi tensioni politiche in Europa che sfociarono nella seconda guerra mondiale; Liane racconta che Ita Wegman “era molto preoccupata per la guerra e tutto ciò che questa portava. La sofferenza di così tante persone in tutto il mondo la toccava profondamente e le disse che l’umanità aveva bisogno di incontrare i suoi dipinti per riparare al legame parzialmente interrotto con il mondo spirituale. Le parlò anche dei suoi piani dopo la guerra, di come continuare il progetto di espansione dell’antroposofia in modo che fosse accessibile al mondo ‘in una forma che non fosse intellettuale e razionale, ma che avesse le qualità del cuore’, […] se questa nuova forma non fosse stata trovata, la guerra sarebbe inutile”.

A trentasette anni Liane si trasferì in Olanda, come le aveva suggerito Ita Wegman, dove sentiva avrebbe potuto trovare spazio per proseguire l’impulso a lei collegato, e avrebbe cercato giovani anime incarnate che avrebbero meglio compreso questo impulso rispetto alla generazione contemporanea, “vai in Olanda, ti piacerà. C’è moltissimo lavoro da fare lì”, le aveva suggerito Ita Wegman.

Qui conobbe la scultrice Francine van Develaar, con cui instaurò la relazione più importante della sua vita; vissero e lavorarono insieme per più di trent’anni e proprio grazie al sostegno di lei, Liane poté esprimere la sua arte e la sua missione: viaggiarono in gran parte del mondo tenendo corsi di pittura e Liane poté esprimere le grandi capacità di comunicare e raccontare, “dipingeva con le parole” un suo allievo, e lei ripeteva, “non noi, ma i colori, loro stessi devono parlare”.

Nel 1968 si creò intorno a Liane e Francine, il “Gruppo Magenta”, uno dei più consistenti gruppi che in quegli anni si erano formati intorno a loro come comunità sociali ed artistiche.

È in questa realtà che Liane poté portare le sue scoperte, le sue ricerche, ma non volle mai brillare per queste sue intuizioni: desiderava fosse l’ascoltatore che percorresse questa strada a suo modo, stimolava la responsabilità dei partecipanti ai corsi per lo sviluppo del lavoro, la qualità artistica e la conoscenza della triplicità cosmica di luce, colore e tenebra.

Desiderò sempre che queste riflessioni non fossero un privilegio di pochi: il poter lavorare e vivere nel mondo dei colori, la capacità di pensare a colori erano una necessità urgente per lo sviluppo civile e sociale dell’epoca: “[…]ai nostri tempi  tendiamo a perdere la possibilità di vedere il colore. La cecità per il colore non è solo qualcosa che nasce nell’occhio, è anche qualcosa che nasce nell’anima. Forse la si potrebbe chiamare ‘atrofia animica’. Cosa c’è, cos’è che si vede nel movimento e nel mescolarsi dei colori? I movimenti e gli incontri degli essere spirituali, la volontà e le opere degli angeli e di esseri ancora più grandi. E quando non si percepisce il colore, si vede soltanto l’essere inanimato del mondo esteriore. I colori sono presenti, sono una realtà vivente. Se si vuole lavorare con i colori, non si dovrebbe solo guardarli, ma vederli. Una tale osservazione cosciente è un atto creativo nel mondo animico, per mezzo del quale facciamo qualcosa per tutto ciò che ci circonda”.

In questo periodo riprese l’attività terapeutica, che aveva messo in secondo piano, ed ora divenne l’aspetto centrale delle sue giornate. Indicava ai suoi studenti come “bisognasse sapere ogni cosa del paziente,: dal suono della voce, le abitudini del sonno, il colore degli occhi e dei capelli, il cibo preferito […] sino anche lo spessore dei polpacci, che corrispondeva al grado di moralità della persona. […] Faceva esperienza delle persone”.

Nell’ultimo decennio della sua vita non riuscì più a viaggiare molto, si dedicò a dipingere e a lavorare al suo libro di arte terapia.

Soffrì dell’affievolirsi di alcuni sensi più esterni: udiva sempre meno e l’apparecchio acustico le procurava mal di testa, non riusciva a nutrirsi a dovere, “divenne sempre più piccola, delicata e trasparente”, ma trovò molti amici che la sostennero e lei ricambiava: amava incontrare le persone, lo “stare insieme” e raccontare storie allegre della sua vita.

“Dipingere è diventato molto lento, come un cane che nuota nell’Atlantico. […] Sì, dipingo ancora, lentamente, veri dipinti di una signora anziana”. Faceva molta fatica a tenere il pennello in mano: dipingeva sin che tutti i pennelli erano caduti a terra, così poteva raccoglierli tutti insieme.

Liane Collot d’Herbois morì a novantun anni, in Olanda, il 17 settembre del 1999.

L’arcobaleno è una meravigliosa immagine dell’essere umano: si possono vedere i suoi sette colori come un’immagine dell’anima purificata, e luce e tenebra al di sotto e al di sopra rappresentano la polarità creatrice spirituale che lo fa nascere. Nell’essere umano tale polarità si ritrova nella luce della coscienza e nella tenebra dell’organismo vivente, in cui i processi creativi e distruttivi sono sempre all’opera.

A cura di Camilla Sirtori