René Favaloro

René Favaloro

30 Aprile 2022 0 Di Camilla

René Favaloro è nato il 12/7/1923 ed è cresciuto in un quartiere povero di operai nella città di La Plata, nella provincia di Buenos Aires, in una famiglia molto umile, nella quale 3 anni dopo nacque il fratello Juan José. René amava andare nel pomeriggio nel giardino dei suoi nonni e passare il tempo con la nonna, una donna analfabeta ma molto colta. Da lei imparò a innamorarsi della terra e degli animali; e dai suoi genitori che non si ottiene nulla senza duro lavoro e sforzo.

Al liceo scoprì il suo amore per la scienza e i grandi classici. I suoi maestri, grandi umanisti, gli risvegliarono il valore della generosità, dell’austerità, della libertà e dell’impegno nella società in cui vivevano. Era uno studente impegnato, tra i migliori della sua classe. Don Chisciotte e Martin Fierro erano i suoi libri preferiti.

Dall’età di dieci o dodici anni aiutò suo padre nella bottega di falegname, dove imparò l’arte dell’intaglio del legno.

Durante le estati passava settimane a casa dello zio paterno Arturo, che era l’unico studente universitario nella famiglia di immigrati siciliani. René lo accompagnava nel suo studio medico e poi a fare le visite domiciliari ai pazienti, e fu da allora che sentì una vocazione per la medicina.

All’università fu particolarmente attratto dalla chirurgia. Nel 1949, all’età di 26 anni, si laureò come medico e dedicò la sua tesi di dottorato a sua nonna Cesárea “che mi ha insegnato a vedere la bellezza anche in un povero ramo secco”. La sua importante carriera come medico e professore universitario fu rovinata dalla situazione politica in Argentina, che gli imponeva di accettare la dottrina del governo dell’epoca, cosa che lui rifiutò drasticamente.

Un altro momento importante che contribuì al cambiamento del suo destino fu l’incidente di suo fratello minore Juan José, investito da un autobus e finito con una gamba amputata. Per tre mesi rimase al suo fianco, essendo il fratello maggiore; la sua responsabilità era aumentata. 

Ricevette una lettera da uno zio di Jacinto Arauz, nella provincia di La Pampa, che gli chiese di sostituire per due o tre mesi il medico locale che era molto malato. Il suo capo cercò di dissuaderlo dicendogli che quella non era la sua strada, “spero che tu abbia molta sfortuna, non sei nato per essere un medico rurale”. A 27 anni, il 25/5/1950, iniziò il suo viaggio in treno verso Jacinto Aráuz dove il destino trasformò quei due o tre mesi in 12 anni, con un profondo significato per il resto della sua vita. Fu presto raggiunto da suo fratello Juan José, anche lui medico.

Sei mesi dopo il suo arrivo a Jacinto Aráuz si recò a Buenos Aires per sposarsi e ritornò a Jacinto Aráuz con sua moglie. Più tardi dirà che i suoi anni a La Pampa lo radicarono profondamente nella terra.

Nei primi tempi soffrì intensamente per essersi lasciato alle spalle il mondo universitario e ospedaliero. La misera realtà di Jacinto Aráuz fu per lui fonte di grande impotenza, anche se lentamente e senza rendersene conto cominciò a intuire l’anima degli abitanti del villaggio con cui si mescolava e di cui comprendeva la sofferenza.

A poco a poco sviluppò il pensiero di stabilirsi con l’idea di cambiare questa realtà sfavorevole. In quegli anni di duro lavoro, insieme a suo fratello, si impegnò a migliorare il benessere e il livello sociale della gente. Riunirono insegnanti, impiegati, madri, padri e rappresentanti della chiesa per promuovere un cambio di paradigma nella consapevolezza della salute, insegnandone le linee guida e la prevenzione. Il piccolo studio medico fu trasformato in una clinica con 23 posti letto, una sala chirurgica e una banca del sangue con donatori a disposizione. Il risultato fu una marcata riduzione della mortalità infantile, della malnutrizione e delle infezioni durante il parto.

Eppure, dopo ogni intervento complesso, anche se provava tanta soddisfazione, sentiva che questo non era il suo posto, che era capace di cose più grandi, che stava impiegando male il suo tempo. Così, all’età di 39 anni, nel 1962, pieno di domande e dubbi, decise di andare negli Stati Uniti.

Iniziò il suo lavoro alla Cleveland Clinic come uditore, senza uno stipendio e come infermiere qualificato. Gradualmente, grazie alla sua abilità, interesse e impegno, guadagnò la fiducia dei suoi capi e colleghi. Durante i lunghi inverni e si dedicava a scrivere libri sulla storia del generale San Martin, che ammirava profondamente come essere umano e soprattutto per i suoi valori umani. Fin dall’inizio aveva individuato uno dei difetti sostanziali della medicina americana, molto efficiente ma un po’ disumanizzata.

Per un medico rurale, abituato al dialogo con i suoi pazienti, era ancora più evidente. Non  poteva perdere le sue abitudini, quindi passava più di tempo con i malati di quanto gli fosse richiesto. Spesso spiegava loro con un piccolo disegno su un pezzo di carta l’intervento chirurgico che stavano per affrontare.

Quando il suo ruolo di capo degli specializzandi, la formazione e la laurea come chirurgo cardiovascolare stavano per finire, disse al suo capo, il dr. Effler, del suo desiderio di voler tornare in Argentina, questi cercò senza successo di dissuaderlo. Nel 1965, all’età di 42 anni, tornò per la prima volta in Argentina, ma rimase deluso dall’egoismo dei colleghi, perciò decise di tornare a Cleveland.

All’inizio del 1967 (44 anni), cominciò ad attraversare la sua mente l’idea del possibile uso della vena safena nella chirurgia coronarica. Il primo intervento con questa tecnica fu eseguito nel maggio 1967 su un paziente di cinquantasette anni.

Il bypass è nato come risultato di un precedente lavoro intensivo con centinaia di pazienti affetti da arteriosclerosi coronarica e come conseguenza di un’attenta analisi di ogni paziente. La standardizzazione di questa tecnica chiamata ”bypass o chirurgia di rivascolarizzazione miocardica” fu il lavoro fondamentale della sua carriera, che fece sì che il suo prestigio travalicasse i confini di quel paese, poiché la procedura avrebbe cambiato radicalmente la storia della malattia coronarica.

Nel 1971 (48 anni) volle tornare nel suo paese per creare un centro di eccellenza in chirurgia cardiovascolare che unisse cure mediche, insegnamento e ricerca, come vide fare alla Cleveland Clinic. Voleva anche che fosse la punta di diamante della sua specialità in America Latina.

 Tornò a dedicarsi all’insegnamento, alla ricerca e alle cure mediche. Volle consacrare l’ultimo terzo della sua vita a creare un dipartimento di chirurgia toracica e cardiovascolare a Buenos Aires, in quanto sentiva di essere l’unico con la possibilità di farlo. Ricevette molteplici offerte milionarie da diverse parti degli Stati Uniti ma lui le rifiutò. Il suo obiettivo era quello di formare chirurghi per il futuro in modo che i malati potessero avere accesso ai suoi trattamenti. Sosteneva che se non lo avesse fatto, avrebbe vissuto il resto della sua vita con il peso sulla coscienza di aver preso la via più facile.

Nel 1975, all’età di 52 anni, creò la fondazione che porta il suo nome e si dedicò all’insegnamento con la sua solita passione, grazie alle donazioni, sovvenzioni, crediti privati e pubblici, all’aiuto fondamentale di suo fratello e al sogno di sviluppare un piano sanitario con accesso a tutti.

Negli anni 1980 e 1985 a 57 e 61 anni rispettivamente, ha scritto i libri Memorie di un medico rurale e Conosce Lei San Martino?. 

Dal 1987 al 1993 scrisse i libri Memoria de Guayaquil e Daella Pampa agli Stati Uniti, inaugurò l’Istituto di Cardiologia e Chirurgia Cardiovascolare per promuovere l’insegnamento e la ricerca, e a 70 anni continuava ancora a insegnare medicina.

Nel 1994 all’età di 71 anni ha sofferto di epatite B. Vedeva la morte vicina e durante quei giorni bui ciò che gli dispiaceva di più era che, se fosse morto, non avrebbe più potuto ascoltare le calandre o vedere i tramonti in campagna.

Nel 1998 all’età di 75 anni (a 74 anni e 5 mesi cade il 4° nodo lunare, a dicembre 1997), in gennaio morì sua moglie Antonia e lui si rifugiò nel lavoro.

A causa della crisi dell’Argentina i suoi sussidi vennero ritirati. La corruzione imperante nel campo medico causò alla fondazione perdite di milioni. Passò il suo tempo a cercare degli aiuti finanziari, bussando alle porte, facendo telefonate senza ricevere alcuna risposta, sentendosi come un mendicante. Il debito nel frattempo era salito a 40 milioni di pesos (18 milioni di dollari).

Nel 1999, all’età di 76 anni, iniziò una relazione con Diana Truden, una segretaria della fondazione 46 anni più giovane di lui. Progettarono di sposarsi entro un anno, nell’agosto del 2000.

La depressione per la crisi angosciante aumentava e il pensiero di lasciare i fedeli colleghi e collaboratori senza lavoro lo tormentava terribilmente. 

Il 29 luglio 2000, all’età di 77 anni, si suicidò sparandosi al cuore. Lasciò sette lettere scritte a mano, al presidente dell’Argentina, a un giornalista, alle persone a lui più vicine e alla sua fidanzata. Sul suo comodino il libro Le vene aperte dell’America Latina di Eduardo Galeano e le sue fedi nel cassetto.

Favaloro non era soddisfatto di aiutare a risolvere i problemi del bisogno fondamentale di salute di ogni singola persona, ma voleva anche contribuire a curare i mali che affliggono la nostra società nel suo insieme. Non perdeva occasione per denunciare problemi come la disoccupazione, la disuguaglianza, la povertà, gli armamenti, l’inquinamento, la droga, la violenza, ecc., convinto che solo quando si conosce e si è consapevoli di un problema è possibile porvi rimedio o, meglio ancora, prevenirlo.

a cura di Mariela Tozzi